La redazione di Flashgiovani era presente all’anteprima stampa di The Black Sheep, docu-film di Antonio Martino, che firma anche la sceneggiatura insieme a Nancy Porsia. Il film è stato prodotto dalla bolognese BOfilm e da Claudio Mazzanti, con la co-produzione di Tita Productions (Francia). Protagonista del documentario è Ausman, giovane libico che, nonostante fosse un pacifista, ha combattuto durante la rivoluzione del suo paese, convinto di battersi per la libertà e la democrazia. Tuttavia, quando la pellicola è stata girata – a tre anni dalla caduta di Gheddafi – la violenza e l’estremismo religioso erano già dilagati, fino a far sentire Ausman come uno straniero nel suo paese.
La pellicola, in gara al concorso internazionale del Biografilm 2016, è stata – nelle parole del direttore artistico Andrea Romeo – intenzionalmente presentata in anteprima alla stampa il 9 giugno, cioè ancora al di fuori del “rumore” della manifestazione, per riconoscerle l'attenzione che meritava. In sala, infatti, erano presenti non solamente il regista e Serena Gramizzi di BOfilm, ma anche Ausman, l’intenso protagonista del film. Al termine della proiezione, abbiamo avuto la possibilità di incontrarli ed intervistarli.
Flashgiovani: Comincerei con il regista Antonio Martino. Immagino tu abbia incontrato delle difficoltà a girare in una zona così instabile. Come avete organizzato le riprese e la troupe?
Antonio Martino: La troupe era formata da me e Nancy Porsia e, oltre a noi, c’era solo un fixer che ci accompagnava con l’automobile. Poi, vista la pericolosità e anche l’imbarazzo che si creava, abbiamo dovuto cambiare metodo. Per la gente libica, infatti, il rapporto con la telecamera è problematico sia per cause culturali, sia per un’abitudine consolidatasi durante il regime di Gheddafi. Sono stati abituati a non farsi mai fotografare: se fotografavi, eri una spia, e se ti fotografavano, eri morto. Perché solamente un interesse da parte dei servizi segreti avrebbe potuto giustificare l’atto del fotografarti... Quindi c’è sempre stata questa paura. La difficoltà che ci creava questa ritrosia si rifletteva anche da un punto di vista tecnico, di sceneggiatura e di regia, perché mentre giravi o mettevi a fuoco, un qualsiasi passante veniva, ti fermava e ti chiedeva i documenti. Era noioso e difficile, perché così non riuscivamo a concentrarci sul lavoro. Poi, come dicevo, abbiamo visto che la situazione peggiorava, e allora abbiamo deciso di muoverci solo io e Ausman: quindi la metà del film è stata girata senza fixer e senza Nancy, che faceva altro, da casa o da altre parti della città. In questo modo – io e Ausman da soli – siamo riusciti a penetrare la realtà in modo più naturale: per la cultura islamica la presenza di una donna, ovviamente, poteva in qualche modo viziare la situazione. Abbiamo poi approfittato del fatto che io sembrassi un libico e, finché riuscivo a nasconderlo, siamo passati inosservati. Ovvio che quando la gente ci avvicinava per strada, ci chiedeva chi fossimo. E una volta scoperto che non ero libico ma italiano, domandavano anche cosa ci facessi lì... per quanto, fra gli altri, gli italiani siano decisamente quelli visti meglio.
F: Quindi questa “italianità” ha aiutato in qualche modo la realizzazione del film?
A.M.: Moltissimo: i libici amano gli italiani. Nonostante si fosse colonizzata quella terra e fatto delle guerre sanguinose, abbiamo anche portato loro l’unico spiraglio di tecnologia. Parlo proprio di tecnologia, ma anche di architettura, perché si vedono dei palazzi costruiti a Tripoli negli anni Venti, durante il fascismo, che loro ammirano ancora adesso. Ma amano anche la nostra cucina, il caffè, ed anche – cosa più curiosa – la tecnologia, come dicevo. Quando sono arrivati gli italiani con le prime automobili, in Libia non ne conoscevano neanche il nome dei componenti. Ancora adesso sono utilizzate molte parole italiane nella lingua: forchetta, coltello, ma anche carburatore, sterzo, semaforo, marciapiede, … tutto quello che prima non esisteva ed è nato in quel tempo, ha mantenuto il nome italiano. Tutto questo retroterra, in realtà, ha finito per diventare un altro problema per il film, perché quando stavamo preparando un’inquadratura, magari arrivava qualcuno e ti diceva: “Ah, ma sei italiano! Semaforo, carburatore, spinterogeno!” (ride) … quella è stata la difficoltà, anche… Devo dire che, sinceramente, i libici sono persone meravigliose. Se ne deve solo conoscere il codice, che peraltro è molto simile al codice del meridione, soprattutto della mia Calabria, quindi per me era quasi spontaneo. Però devo ammettere che molte persone (e anche a me, a volte, è capitato) hanno difficoltà a rapportarsi con loro, perché ti rispettano solo se ne conosci il codice di cui ti parlavo. Sarebbe bello ed importante che si capisse questo aspetto, per spiegare anche quello che sta succedendo in Italia, quando avvengono degli scontri fra i rifugiati e coloro che hanno bisogno. Ma non solo per quello: anche in Italia esistono dei codici. Quando non li si conosce, si possono inconsapevolmente creare offese… e questo l’ho imparato in Libia. Io, per esempio, non tornavo in Calabria da vent’anni: la disprezzavo. E invece, dopo la Libia, ho passato lì due anni senza mai tornare a Bologna. Tutto mi è sembrato più facile, mi sono rivisto nella società dove sono nato e ho iniziato a usarne i codici. Ma anche qua a Bologna devi rispettarne un po’... Con i codici – giusti o sbagliati che siano – devi comunque fare i conti. Questa consapevolezza ha cambiato la mia vita, mi ha reso più tollerante e mi ha dato una visione più ampia, al di là della retorica politically correct o del buonismo.
F: Peraltro, non è la prima volta che, come regista, ti poni a documentare situazioni difficili... mi viene ad esempio in mente il tuo “Noi siamo l’aria, non la terra” su Chernobyl: sempre progetti non facili… Rispetto ai tuoi film precedenti, quindi, vedi una differenza con questo lavoro sulla Libia oppure no? Credi che la tua radice culturale, di cui ci parlavi, abbia inciso sulla tua voglia di raccontare sempre le zone d’ombra della storia recente, contemporanea o addirittura – come nel caso di The Black Sheep – nel suo farsi?
A.M.: Il mio voler raccontare queste situazioni estreme ovviamente deriva dalla mia infanzia e anche dalla voglia di parlare. Perché in Calabria, dove noi abbiamo avuto la nostra guerra – di cui nessuno parla o vuole dire nulla – era vietato parlare: l’omertà è un concetto che in Italia è nato proprio con i fenomeni mafiosi del meridione. Quindi la bocca tappata è una concetto col quale ho familiarità. Mi ricordo però il personaggio di mia madre, che mi diceva da un orecchio “Stai zitto”, ma dall’altro, essendo uno spirito ribelle, e per di più donna (e quindi oppressa da quella società), mi provocava. È da lì che tutto è iniziato. Quando poi sono diventato adulto, e della Calabria si era già detto tutto – per quanto non sia cambiato niente – ho cominciato a sentire una rabbia dentro di me, e la voglia di “dar voce” alle persone che non l’avevano avuta. Quello che è cambiato, per me come regista, adesso è l’aspetto tecnico: questa [con The Black Sheep, n.d.r.] è la prima volta che riesco a seguire un personaggio per tre, quattro mesi in modo continuativo. E poi, rispetto agli altri, questo progetto è diverso anche perché mi ha imposto delle scelte, anche etiche in qualche modo. Il documentario è infatti il genere che filma la società; ma, cambiando la società, come sta accadendo ultimamente a gran velocità, deve cambiare anche la narrazione del documentario. Mentre prima, cioè, avevamo tendenzialmente una voce narrante, che era quasi la voce di Dio, della quale tu ti dovevi fidare ciecamente, ora i documentari di questo tipo sono rari: si ha sempre un’esperienza personale, più riflessiva. Questo aspetto ha ovviamente anche un altro risvolto, ovvero l’emergere delle contraddizioni del documentario contemporaneo. Se segui una vita nel suo svolgersi, infatti, non è mai tutto lineare e coerente. Esistono sempre delle contraddizioni. In più noi stessi viviamo in un periodo di profondo cambiamento, sia in Europa, sia in Italia, ma anche a livello mondiale. E io ho dovuto fronteggiare in qualche modo questa cosa, perché sono cresciuto negli anni ’90 dove c’era una certa cultura, ed invece in dieci-quindici anni il mondo è cambiato completamente. È ovvio che, a questo punto, mi sono dovuto imporre di uscire da quello schema di “antagonista di sinistra” e cominciare a assumermi le responsabilità, ovvero essere il più obiettivo possibile. E questo anche – perché no – attraverso la provocazione. Mi piace che la gente si fermi a pensare. Quello che è stato difficile in questo film è che, mentre gli altri riguardavano la “periferia” delle news, questo documentario – e la vita di Ausman – si intersecano direttamente, prepotentemente con una situazione geopolitica complessa e attuale. Come regista, io non posso evitare questo aspetto, ma, anzi, lo devo affrontare, e di conseguenza devo costruire il film in modo da essere coerente nella mia visione e anche nella visione delle cose in un senso più ampio del termine. La difficoltà quindi consiste nel fatto che, se da una parte abbiamo un moto di comprensione, dall’altra, grazie al contributo di queste vite, spesso c’è un emergere di paradossi e contraddizioni. Questo aspetto mi fa molto pensare, ma io devo limitarmi a mostrare e riportare ciò che vedo e a stimolare il pensiero del pubblico: io non ho parlato di me, non ho parlato della mia società, e non mi sarei mai nemmeno sognato di fare un film del genere con la forma dell’inchiesta, per voler dimostrare una mia tesi. Io non ho una tesi.
F: … forse se il film avesse avuto la forma di inchiesta sarebbe stato più “appetibile”, almeno da un punto di vista della produzione, e sarebbe stato più facile trovargli una distribuzione. Voi invece avete scelto una strada più complessa… questo mi spinge anche a chiederti quale sia lo spazio che occupa il docu-film oggi nel panorama mediale del cinema, essendo una nicchia di mercato rispetto al cinema di fiction. Come ci si crea questo spazio in un simile contesto? Come si fa ad arrivare a contatto con queste vite “speciali” che, come quella di Ausman, devono essere raccontate? Questo lo chiedo a Antonio Marino, come regista, ma anche a Serena Gramizzi, come produttrice…
A.M.: Per quanto mi riguarda, ci si arriva frequentando, viaggiando, avendo il coraggio di stare nelle situazioni, … Quello che ho capito, per prima cosa, quando sono arrivato in Libia, è che avrei dovuto subito trovarmi uno “spazio” mio. Era molto importante, in una società che non mi accettava automaticamente, trovarmi un posto, una posizione, dicendo: “Ok, in questa società questo è il mio posto, dal quale filmerò. Tutti lo sapete e dovete riconoscere questa mia posizione”. Questo ho fatto. Poi, ovviamente, una volta conquistata quella posizione, le storie che ti si presentano sono infinite. Ovvio, ci sono anche le questioni tecniche: la luce non ti piace, c’è un camion che passa e rovina l’audio, qualcuno non vuole far vedere la faccia, … ma nell’insieme delle cose, le storie sono tutte raccontabili e interessantissime. Ovviamente, poi, in una società dove il documentario non è ancora capito (pensa: abbiamo difficoltà ancora in Italia, figurati in Libia…) ho invece avuto la fortuna di incontrare Ausman. E, anche se Nancy stava già da due anni in Libia e aveva intuito che ci fossero delle storie da raccontare, era difficile trovare quelle giuste, perché nella sua idea il film avrebbe dovuto essere più corale, sui giovani, mentre poi invece ci è capitato il “puro”: qualcuno che è fortemente convinto delle sue idee. Io ho vissuto questo incontro con Ausman come un segnale: da quel momento, infatti, il film si è fatto da sé, nonostante le peripezie, le violenze, le avventure anche bellissime che abbiamo vissuto e che mi hanno fatto sentire come nel Far West fra i cowboy… per me è stato eccitantissimo (infatti a me, a differenza sua [di Ausman, n.d.r.] la Libia manca moltissimo, mi mancano gli amici e la situazione estrema che ho vissuto …). Quindi, per riassumere: solo frequentando un luogo puoi conquistarti un posto al suo interno, soprattutto se, come me, vuoi ritagliarti uno spazio gratis… Perché ti posso garantire che se un giornalista va in Libia, deve pagare minimo 1000 euro ad intervista: te la devi comprare. Noi non avevamo i soldi e neanche potevamo fare un documentario di quel tipo, in quel modo, perché in quel caso lui [Ausman, n.d.r.] non mi avrebbe mai dato il cuore… per questo la gestazione è stata lunga, e una volta trovato il mio spazio, tutto o quasi si è allineato. Ovviamente io, quando non faccio film, leggo e mi informo, anche grazie alle nuove tecnologie, su ciò che è interessante, e poi Serena [Gramizzi, produttrice di The Black Sheep, n.d.r.] valuta, me ne spiega la fattibilità e mi dice se ci sia o meno uno spazio nel mercato per quel progetto, perché quella è la sua arte…
F: ...Chiediamo allora a Serena Gramizzi: come si fa, con i mercati, quando si hanno progetti coraggiosi come questo documentario?
Serena Gramizzi: Innanzi tutto la BOfilm fa solo documentari e soprattutto a tematica sociale. Per noi è una missione: è l’idea di ritagliarci un diritto di parola. Abbiamo la fortuna di lavorare con autori molto bravi, come Antonio Martino e altri, che sono molto capaci – ma che non sono facilmente comprensibili dal grande pubblico – e abbiamo anche la voglia di dare loro uno spazio. Per questo sensibilizziamo il mercato e siamo riconosciuti come “quei produttori coraggiosi che…”: piano piano ci siamo riusciti, facendo dei lavori in cui crediamo molto anche se non abbiamo spesso le risorse a priori. Perché ovviamente è difficile sensibilizzare il mercato a scatola chiusa, per quanto sin dal primo pitching l’importanza di questo film fosse evidente a tutti. I grossi media hanno paura a entrare in un prodotto come The Black Sheep, che tocca tematiche molto sensibili, soprattutto non conoscendo noi e non sapendo come il film si sarebbe presentato alla fine. Hanno paura ad investire alla cieca, perché non sono pronti a sostenere delle critiche e a aprire questo varco a favore di quest tipo di prodotti. BOfilm invece lo fa, con o senza i grandi media, e con The Black Sheep abbiamo fatto senza. Siamo molto contenti di averlo portato, ciononostante, a termine. Ultimamente, soprattutto negli ultimi pitching (mentre nei primi abbiamo avuto molto sostegno ma nessuno è effettivamente entrato nel merito della produzione e del budget), quasi tutti ci hanno detto che abbiamo trovato la strada giusta, e quindi presumo che questo film avrà la visibilità che merita e che finalmente riusciremo a scardinare questa paura di dire le cose. Non è facile, ma lo facciamo e combattiamo per questo. Per me, uno degli episodi più importanti che ci sia capitato in un mercato, è stato quando abbiamo pitchato al Medimed, che è un mercato che si tiene vicino a Barcellona dedicato alle produzioni del e sul Mediterraneo. Lì c'era il responsabile di una televisione marocchina che mi ha detto: “Io non posso fare niente, non posso far vedere questo film nella mia televisione ma per favore andate avanti, continuate, perché questo film rappresenta me, rappresenta tutta la mia generazione. Con questo film avete infranto degli stereotipi”. Anche in quella occasione, comunque, nessuno voleva imbarcarsi nel progetto, quindi ho chiamato Antonio [Martino, il regista, n.d.r.] e gliel'ho detto, ma gli ho anche detto di questo incontro, di questa persona che per 50 minuti ha cercato di convincermi a non mollare. Noi quindi andiamo avanti contro tutto e tutti, e ora ce l'abbiamo fatta.
F: … e sicuramente otterrete lo spazio che meritate, o per lo meno noi ce lo auguriamo. Per concludere, vorrei rivolgermi ad Ausman, protagonista di The Black Sheep. Cosa significa per un uomo che anela alla pace, come te, e che desidera solamente di vivere pacificamente nel proprio paese dover invece portare con sé delle armi per garantire la propria sicurezza, come abbiamo visto nel film? Cosa si prova ad essere immersi in una situazione così conflittuale? È una domanda molto dura, mi rendo conto...
Ausman: Sì, è una domanda difficile... è davvero dura vivere in quella situazione. Soprattutto perché è una situazione che non hai scelto, e perciò c'è una parte considerevole di te che ti ripete: “Questo non sei tu”, ma purtroppo non c'è altra scelta, perché in quel contesto potrebbe succederti qualsiasi cosa e non c'è altro modo di proteggerti, tranne quello di portare delle armi. Se ci ripenso, ancora adesso, sento ogni secondo il rimorso di quei giorni, perché la violenza peggiora unicamente le cose, non può mai migliorarle. Va bene combattere, ma con la tua testa: essere un artista, per esempio. Comunque bisogna combattere per e con la pace, non con la violenza. Io credo che la violenza crei solo altra violenza. Per questo, il periodo della mia vita che si racconta nel film è stato davvero terribile per me. E sono davvero felice di non trovarmi più in quella situazione.
F: Alla fine del film, vediamo che sei arrivato in Finlandia e sei in attesa di un permesso di soggiorno. Sei riuscito a restare? Dove si trova oggi la casa di Ausman?
A: (ride) Sul pianeta Terra...
F: Ok… fantastico! Che dire, speriamo tu ci resti ancora a lungo...!
A: Grazie, grazie mille.
F: Un'altra cosa vorrei chiederti: cosa si prova a mettere la propria vita, che è personale e privata, di fronte alla macchina da presa e, di conseguenza, potenzialmente di fronte a un sacco di gente – al pubblico – che, fra l'altro, molto probabilmente, non avrà mai l'occasione ci conoscerti personalmente?
A: È molto difficile. Innanzi tutto non mi sarei mai aspettato che fosse un pubblico così vasto come poi si è rivelato... In ogni caso, condividere la mia vita non è stata una scelta dettata dal voler essere riconosciuto dal pubblico in quanto persona, ma perché volevo si vedesse la storia dietro di me. Io sono solo un uomo normale, che vuole vivere in pace: non sono speciale, sono solo uno che è stanco della violenza, degli omicidi e di tutto ciò che facciamo per distruggerci l'un l'altro per niente... È stato un periodo molto difficile per me, e credo sia per questo che ancora oggi non sono stato in grado di vedere il film. Sono un po' impaurito dal farlo, perché non so chi io sia in quel film... quindi guarderò un film con un estraneo, esattamente come voi. Non è facile, ma penso che se hai un messaggio che vuoi condividere devi parlare, non puoi tacere e stare tranquillo a badare ai fatti tuoi... è proprio per questo che le cose vanno male in questo mondo: perché la gente pensa ai fatti suoi e dice: “Non sono affari miei, non è un mio problema”. Ma un giorno potrebbe essere un tuo problema, per cui devi sempre parlare e mai tacere, qualsiasi cosa accada. A me è costato molto, ma sono stato felice di farlo ugualmente. E se dovessi tornare indietro, avere un'altra scelta in un'altra vita, rifarei lo stesso, al 100%. Questo è ciò in cui credo.
F: È questo è incredibile, davvero... Ora, per concludere, vorrei porti una domanda un po' più leggera delle precedenti, e che mi è sorta guardando il film. Nel documentario parli anche del tuo rapporto con la musica metal e di quanto tu ti senta rappresentato da essa, specialmente a causa della situazione che stavi vivendo nel tuo paese. È interessante l'uso che hai fatto di questa – che potremmo definire una sottocultura musicale, una cultura avversativa – per combattere e resistere alla cultura della maggioranza che ti circondava. La domanda quindi è: come vivi il rapporto con questa musica? Come si sposa il tuo senso di appartenenza al metal, con il fatto che questo sia un genere concepito altrove, da band europee o americane, e quindi anche per un altro pubblico? Perché e come hai usato il metal nella tua personale esperienza di vita?
A: È veramente una bellissima domanda. Penso che la musica abbia scelto me e non il contrario, a dire il vero. Questo genere di musica è per quelli che vogliono mandare un vero messaggio. Non sono solo canzoni d'amore... non è niente del genere: non è musica “carina”. Parla di politica, di religione, di omosessualità, … di diversi tipi di argomenti che ci circondano. La musica è uno strumento forte, ed è per di più un'ottima arma contro qualsiasi cosa tu voglia combattere. Invece di usare una pistola, preferisco usare una chitarra: è molto meglio di un kalashnikov (ride). La musica metal è molto potente, ha ritmo... Siamo arrabbiati, siamo furiosi, ma non volgiamo fare del male a nessuno, perciò usiamo quella rabbia nel metal: perché racchiude una grande forza, ma allo stesso tempo anche una grande bellezza. Il metal non è solo rabbia, è anche arte, perciò proviamo a mescolare rabbia ed arte e otteniamo il metal. Ecco perché mi piace questo genere, perché parla della realtà e non solo di favole. È per questo che la amo ed è grazie ad essa che sono riuscito ad evadere dalla cultura della maggioranza che mi circondava. E anche se questa musica è internazionale, e fatta per un altro pubblico, per un’altra cultura, o religione, ... non importa, perché condividiamo lo stesso pensiero e sappiamo che siamo tutti uguali, perché amiamo le stesse cose. Quando ci incontriamo, non ci chiediamo “Da dove vieni?” o “Qual è la tua religione?”, ma siccome ci piacciono le stesse cose, al massimo: “Qual è la tua band preferita?” “A me piace questa” “No, a me piace quella” e poi magari litighiamo, ma sulla musica (ride)! Quindi, secondo me, l'arte è sempre un veicolo fondamentale per rappresentare chi tu sia. Questo è quello che credo.
F: Grazie mille. Personalmente, vorrei approfittare di questa occasione per ringraziarti di aver condiviso la tua vita con tutti noi, perché è una vita che vale veramente la pena di essere conosciuta, Ausman, per cui di nuovo grazie.
A: Grazie, grazie mille.
Intervista a cura di Sara Tomasin e Cristina Catanese
Guarda il trailer di The Black Sheep (2016), di Antonio Martino con Ausman